Marie Claire Italy
Fuori dal Mondo
di Germano D’Acquisto
C’è una fotografa che ha scelto di raccontare i luoghi piùdi Scarlett Hooft Graafland gli uomini indossano veli rosa shocking, leggings giallo fluo spuntano dai tetti delle capanne. «Solo scoprendo remoti del pianeta mescolando poesia, ironia e impegno. Nelle opera trasformandosi in Barbapapà, mentre gambe femminili vestite di culture lontane», dice, «imparo a conoscere la mia»
COME FOSSE IL FRUTTO di chissà quale strana alchimia, definisce la sua arte un intruglio di tre parole: avventura, improvvisazione e fiducia. Perché solo se convivono questi tre elementi, le poesie visive che realizza hanno forza e senso. Lei è Scarlett Hooft Graafland, fotografa olandese di 44 anni, che ha scelto di raccontare il nostro pianeta mescolando surrealismo e delicatezza, ironia e impegno. Dai ghiacciai sperduti del Nord del Canada fino alla misteriosa isola di Socotra, la poetica dell’artista - che da piccola passava le sue giornate a sfogliare i libri d’esplorazione del 18° secolo di James Cook – custodisce sempre un particolare spiazzante, un oggetto ordinario che in realtà di ordinario non ha proprio nulla. Nei suoi ultimi lavori, raccolti in queste pagine, ha fatto indossare veli rosa shocking a uomini e cammelli nel cuore del deserto degli Emirati Arabi, volare baguette sulle montagne del Madagascar e spuntare gambe femminili in leggings gialli dai tetti delle capanne dello Yemen. «Amo esplorare ciò che non conosco», racconta Scarlett. «È solo così che mi rendo conto di essere viva, di essere parte del mondo. È vivendo in mezzo alle comunità più remote del pianeta, è scoprendo culture lontanissime che imparo a conoscere la mia».
È sempre stata attratta da progetti che avessero una forte componente etica, filosofica ed ecosostenibile.
Ma l’arte deve avere principi morali?
Credo che l’arte sia un luogo in cui si ha la libertà di raccontare qualsiasi cosa sotto luci diverse. Questa è la sua forza, e la sua bellezza. Nei miei lavori mi concentro su soggetti che possono essere visti in modi differenti perché lontani dal nostro quotidiano. Il mio obiettivo è creare situazioni in cui queste diverse visioni possano convergere in una sola.
Per questo lavora tanto con le comunità locali. Esquimesi, Quechua, Melanesiani: ma come fate a capirvi?
Questa è forse la sfida più grande, perché nei luoghi in cui arrivo l’arte contemporanea non esiste. Una grossa fetta del mio lavoro è cercare di convincere la gente del posto a collaborare con me grazie a piccoli disegni che realizzo. È solo grazie a questi che riesco a entrare in contatto con la comunità e, quindi, con la cultura del luogo.
Si è mai sentita un’intrusa? Probabilmente sì. Ogni realtà ha regole e veti. Io provo in tutti i modi a relazionarmi con la popolazione ma non sempre ciò avviene naturalmente.
Non crede che l’essere un intruso possa avere i suoi privilegi?
In realtà credo che il mio grande privilegio sia essere artista. Potermi esprimere senza vincoli è un dono. Ne Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry la lezione morale è che si conoscono solo le cose che si addomesticano. “Addomesticare” significa creare legami e relazioni emotive, che spesso creano nostalgia e tristezza ma che nel contempo sono le più importanti fonti di felicità e ispirazione.
Ci si ritrova? Mi piace la prospettiva di Antoine de Saint-Exupéry. Ognuno vive nel suo piccolo mondo, fatto di vincoli e regole. Girando il pianeta ho toccato con mano quante culture si confrontano Still Life with Camel, united emirates, 2016. dunes like you, united emirates, 2016.
Con queste restrizioni, spesso implicite. Iocerco di renderle esplicite. Come? Facendo diventare le stesse comunità locali parte integrante delle opere. Probabilmente “addomesticandole” nel solco di quanto viene detto ne Il piccolo principe.
È stato complicate lavorare in paesi come Yemen ed Emirati Arabi? A Socotra ho avuto la fortuna di incontrare un reporter di guerra di Sana’a che mi ha aiutato sia con la gente locale che con le autorità. È grazie a lui che ho potuto reclutare i modelli per lo scatto Burka Balloons. Mentre negli Emirati sono stata invitata al Photo Dubai Festival, e ciò mi ha permesso di entrare in contatto con gli uomini che ho ritratto nel deserto col velo rosa.
A proposito, perché quel velo rosa? Perché lo shooting è stato nel Deserto rosa, vicino a Dubai. Non potevo farne a meno (ride).
E perché lo ha fatto indossare a uomini? È vero, in Dunes Like You sono uomini a vestire il keffiyeh. Ma è perché negli Emirati I maschi mostrano il loro status sociale in base al tipo di velo che portano. Ho pensato fosse interessante giocare con queste tradizioni, ma con un tocco di originalità: l’aggiunta del rosa, che per me è un colore lieve, capace di sdrammatizzare e che faceva somigliare le figure ritratte a qualcosa di innocente come Barbapapà.
A quale progetto sta lavorando in questo momento? A quello più importante: sto aspettando un bambino. E sto molto più attenta alla mia salute.
Ho ancora la punta del naso insensibile a causa del lungo periodo passato fra i ghiacciai del Canada. Vorrei scrivere un libro dedicato meravigliose che ho visto. Mentre il prossimo aprile tornerò in Bolivia per un nuovo lavoro.
C’è una canzone che avrebbe volute scrivere? Desert Rose di Sting, perché ho amato il modo in cui l’artista inglese è riuscito a collaborare con il cantante algerino Cheb Mami.
Un sogno che aveva da bambina?
Sognavo di essere una zingara e di viaggiare per il mondo con la mia famiglia e i miei cavalli su un carro colorato. Direi che il sogno, almeno in parte, si è realizzato.
di Germano D’Acquisto
C’è una fotografa che ha scelto di raccontare i luoghi piùdi Scarlett Hooft Graafland gli uomini indossano veli rosa shocking, leggings giallo fluo spuntano dai tetti delle capanne. «Solo scoprendo remoti del pianeta mescolando poesia, ironia e impegno. Nelle opera trasformandosi in Barbapapà, mentre gambe femminili vestite di culture lontane», dice, «imparo a conoscere la mia»
COME FOSSE IL FRUTTO di chissà quale strana alchimia, definisce la sua arte un intruglio di tre parole: avventura, improvvisazione e fiducia. Perché solo se convivono questi tre elementi, le poesie visive che realizza hanno forza e senso. Lei è Scarlett Hooft Graafland, fotografa olandese di 44 anni, che ha scelto di raccontare il nostro pianeta mescolando surrealismo e delicatezza, ironia e impegno. Dai ghiacciai sperduti del Nord del Canada fino alla misteriosa isola di Socotra, la poetica dell’artista - che da piccola passava le sue giornate a sfogliare i libri d’esplorazione del 18° secolo di James Cook – custodisce sempre un particolare spiazzante, un oggetto ordinario che in realtà di ordinario non ha proprio nulla. Nei suoi ultimi lavori, raccolti in queste pagine, ha fatto indossare veli rosa shocking a uomini e cammelli nel cuore del deserto degli Emirati Arabi, volare baguette sulle montagne del Madagascar e spuntare gambe femminili in leggings gialli dai tetti delle capanne dello Yemen. «Amo esplorare ciò che non conosco», racconta Scarlett. «È solo così che mi rendo conto di essere viva, di essere parte del mondo. È vivendo in mezzo alle comunità più remote del pianeta, è scoprendo culture lontanissime che imparo a conoscere la mia».
È sempre stata attratta da progetti che avessero una forte componente etica, filosofica ed ecosostenibile.
Ma l’arte deve avere principi morali?
Credo che l’arte sia un luogo in cui si ha la libertà di raccontare qualsiasi cosa sotto luci diverse. Questa è la sua forza, e la sua bellezza. Nei miei lavori mi concentro su soggetti che possono essere visti in modi differenti perché lontani dal nostro quotidiano. Il mio obiettivo è creare situazioni in cui queste diverse visioni possano convergere in una sola.
Per questo lavora tanto con le comunità locali. Esquimesi, Quechua, Melanesiani: ma come fate a capirvi?
Questa è forse la sfida più grande, perché nei luoghi in cui arrivo l’arte contemporanea non esiste. Una grossa fetta del mio lavoro è cercare di convincere la gente del posto a collaborare con me grazie a piccoli disegni che realizzo. È solo grazie a questi che riesco a entrare in contatto con la comunità e, quindi, con la cultura del luogo.
Si è mai sentita un’intrusa? Probabilmente sì. Ogni realtà ha regole e veti. Io provo in tutti i modi a relazionarmi con la popolazione ma non sempre ciò avviene naturalmente.
Non crede che l’essere un intruso possa avere i suoi privilegi?
In realtà credo che il mio grande privilegio sia essere artista. Potermi esprimere senza vincoli è un dono. Ne Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry la lezione morale è che si conoscono solo le cose che si addomesticano. “Addomesticare” significa creare legami e relazioni emotive, che spesso creano nostalgia e tristezza ma che nel contempo sono le più importanti fonti di felicità e ispirazione.
Ci si ritrova? Mi piace la prospettiva di Antoine de Saint-Exupéry. Ognuno vive nel suo piccolo mondo, fatto di vincoli e regole. Girando il pianeta ho toccato con mano quante culture si confrontano Still Life with Camel, united emirates, 2016. dunes like you, united emirates, 2016.
Con queste restrizioni, spesso implicite. Iocerco di renderle esplicite. Come? Facendo diventare le stesse comunità locali parte integrante delle opere. Probabilmente “addomesticandole” nel solco di quanto viene detto ne Il piccolo principe.
È stato complicate lavorare in paesi come Yemen ed Emirati Arabi? A Socotra ho avuto la fortuna di incontrare un reporter di guerra di Sana’a che mi ha aiutato sia con la gente locale che con le autorità. È grazie a lui che ho potuto reclutare i modelli per lo scatto Burka Balloons. Mentre negli Emirati sono stata invitata al Photo Dubai Festival, e ciò mi ha permesso di entrare in contatto con gli uomini che ho ritratto nel deserto col velo rosa.
A proposito, perché quel velo rosa? Perché lo shooting è stato nel Deserto rosa, vicino a Dubai. Non potevo farne a meno (ride).
E perché lo ha fatto indossare a uomini? È vero, in Dunes Like You sono uomini a vestire il keffiyeh. Ma è perché negli Emirati I maschi mostrano il loro status sociale in base al tipo di velo che portano. Ho pensato fosse interessante giocare con queste tradizioni, ma con un tocco di originalità: l’aggiunta del rosa, che per me è un colore lieve, capace di sdrammatizzare e che faceva somigliare le figure ritratte a qualcosa di innocente come Barbapapà.
A quale progetto sta lavorando in questo momento? A quello più importante: sto aspettando un bambino. E sto molto più attenta alla mia salute.
Ho ancora la punta del naso insensibile a causa del lungo periodo passato fra i ghiacciai del Canada. Vorrei scrivere un libro dedicato meravigliose che ho visto. Mentre il prossimo aprile tornerò in Bolivia per un nuovo lavoro.
C’è una canzone che avrebbe volute scrivere? Desert Rose di Sting, perché ho amato il modo in cui l’artista inglese è riuscito a collaborare con il cantante algerino Cheb Mami.
Un sogno che aveva da bambina?
Sognavo di essere una zingara e di viaggiare per il mondo con la mia famiglia e i miei cavalli su un carro colorato. Direi che il sogno, almeno in parte, si è realizzato.